Un episodio della resistenza antifascista in Etiopia, 1938-39.
Un'impresa avvolta nel mistero e della
quale si hanno solo notizie frammentarie.
Qualche decennio fa il senatore del PCI
Giancarlo Pajetta, intervistato sull'argomento, precisò che non fu
mai trovato il diario del principale protagonista dell'impresa.
“...di quella vicenda e del fatto
che là aveva trovato persino un comunista etiopico, ci disse di
averne scritto nelle sue memorie. Doveva essere un racconto
affascinante: dopo la sua morte cercammo il manoscritto per mezza
Italia. Non lo trovammo e perciò restammo col dubbio che lo avesse
scritto davvero. Si fece ogni sforzo ma nessuna delle donne che
avrebbe potuto averlo avuto in consegna - e che, essendo assai
numerose, rendevano la ricerca imbarazzante e non facile - fu in
grado di farcelo ritrovare” (Giancarlo
Pajetta, Il ragazzo rosso, Mondadori, Milano 1983).
Il mistero riguarda la missione (o
forse più di una, certamente un paio) che nel 1938 un piccolo gruppo
di comunisti, di quelli che fondarono il partito in Italia, compirono
nell'Etiopia soggetta al tallone di ferro delle truppe d'occupazione
italiane.
Tra di essi Ilio Barontini, un
comunista le cui gesta in tre continenti rimangono leggendarie, ma
note solo quelle in Europa.
Ancora una decina di anni fa era
possibile incontrare ad Addis Ababa, presso il cimitero dei reduci a
ridosso della chiesa mausoleo consacrata alle spoglie di Hailè
Selassie, proprio sulla collina alle spalle del Ghebbi (palazzo)
imperiale che fu di Menelik, gli ultimi reduci ottantenni-novantenni
arbagnuocc che cacciarono i
fascisti italiani dalla loro patria.
Ad un giornalista italiano uno di
questi fieri e poverissimi vecchietti, che amavano stazionare presso
il loro circolo di reduci indossando sempre l'uniforme color kaki
della guerra italo-etiope, fece questa dichiarazione: “sì…
c’era un italiano che ci insegnava a sfottere
i fascisti… in italiano». A
riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki.
«Lui stava col nostro esercito,
Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c’era la taglia col suo
nome». Che faceva? «Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini,
a gridare a squarciagola». Cosa urlavate? «Le vostre mogli se la
spassano con i gerarchiiii!». E poi? «Gridavamo in eritreo, agli
ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!».
Abboccavano? «In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti
aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come
lepri in una gola tra i monti. E lì c’era l’imboscata». «Aveva
gli occhi folli» narra il veterano, sbarrando le pupille, come
posseduto dal grande spirito. Ed evoca la leggenda clandestina del
combattente di Spagna, Etiopia e Italia, che morì senza lasciar
nulla di scritto. “Paulus” l’imprendibile, che insegna agli
africani la guerra psicologica e l’uso delle mine, ciclostila
giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette
gli ordini del Negus...” (Paolo
Rumiz, La Domenica di Repubblica, 30 aprile 2006)
Il 3 ottobre del 1935 l'italia fascista
cominciava l'invasione dell'Etiopia con un dispiegamento di forze
pari soltanto a quello che sarebbe stata messa in campo, in seguito,
in Vietnam dagli Usa.
In totale 400.000 uomini, tra esercito
e civili di supporto, al comando di De Bono, prima, e successivamente
di Badoglio e Graziani. La stessa coppia di “professionisti” che
avevano operato in Libia (Graziani già in quella data si sarà
assicurato l'appellativo di “macellaio di Libia”).
L'Italia utilizzò abbondantemente gas
urticanti (iprite) e asfissianti (fosgene) per avere ragione
sbrigativamente dell'esercito etiope, producendo dei veri e propri
genocidi anche presso la popolazione civile.
Era
il coronamento della politica coloniale italiana cominciata nel 1869
dall'Italia liberale con l'acquisto del porto di Assab, nel mar
Rosso, e attuata sempre sotto l'ala protettiva della predominante
potenza inglese in tutti i suoi passaggi: dalla conquista
dell'Eritrea con conseguente primo tentativo di penetrazione in
Abissinia bloccata dalla sconfitta di Adua del 1896, a quella della
Somalia, allo sbarco in Libia nel 1911, con il tacito consenso della
Francia e come retroguardia per parte inglese nel conflitto con
l'Impero della Sublime Porta, alle isole del Dodecanneso.
Il
fascismo darà nuova energia ai propositi coloniali italiani,
sostituendo al precedente apparato retorico di un “risorgimento”
che travalicava i confini nazionali, la una nuova cornice ideologica
del diritto “al posto al sole”, come per tutte le grandi nazioni,
anche per la “grande proletaria” che avrebbe così compiuto il
suo destino di ricostituzione dei miti e dei fasti della civiltà di
Roma.
Purtuttavia gli aggressori non avranno
mai piena ragione del territorio dell'Etiopia nella sua interezza. A
parte le città e le zone limitrofe, nelle quali in soli cinque anni
si comincerà a costruire il nuovo volto dell'impero d'Africa, con
una dispendiosa e sistematica politica d'insediamento, economica,
urbanistica e sociale, corrispondente al keynesismo fascista di
guerra, il resto del paese è preda delle azioni di resistenza delle
aristocrazie Amhara e Tigrina il cui spirito nazionalista si salda
con la tradizionale azione degli sciftà (banditi
secondo la lunga tradizione tribale corrispondente ad un'antico
sistema di sussistenza economica etiope).
L'esercizio del
potere da parte del fascismo in Etiopia non brillò mai per
lungimiranza. Non vi fu mai alcun tentativo di cooptare le vecchie
aristocrazie al potere, anzi nei loro confronti il generale Graziani,
che sarà il primo governatore italiano, avrebbe messo in atto opere
di vera e propria persecuzione e genocidio, come quella relativa
all'episodio di Debre Libanos.
Prima dello scoppio del conflitto gli
appelli del Negus Haile' Sellassiè erano rimasti inascoltati da
parte della Società delle Nazioni , organismo di cui l'Etiopia,
unico tra gli stati africani, faceva parte in virtù di un'abile
politica di mediazione, nei cento anni precedenti, attuata
giostrandosi tra gli appetiti coloniali delle grandi potenze. Menelik
II era riuscito a mantenere l'indipendenza dello stato africano,
oltrechè con la vittoria nella battaglia di Adua, che costituirà un
monito per gli stati europei, anche avendo dato forma e direzione al
nazionalismo delle storiche aristocrazie abissine in quella vasta
porzione del Corno d'Africa. Il suo successore,Hailè Sellassiè, si
ritrovò viceversa a dirigere l'impari resistenza all'avanzata delle
truppe italiane e prima della caduta di Addis Ababa (5 maggio 1936),
ad opera della Colonna Badoglio, e di Harar da parte della Colonna
Graziani, abbandonò il paese.
Le democrazie liberali europee erano
impegnate a non disturbare il regime fascista e spingere quello
nazista contro l'Urss.
L'Internazionale Comunista raccolse
l'appello del Negus con la consapevolezza che solo una guerra di
posizione su tre continenti, facendo leva sulle lotte di liberazione
dei popoli, poteva bloccare ed infine sconfiggere l'avanzata
dell'imperialismo nazista e di quello fascista. Ad essi le potenze
capitaliste “liberali” opponevano il semplice “minuetto”
della diplomazia, tradimenti di campo e sperimentazioni di nuove
effimere alleanze geopolitiche nella convinzione di non essere
travolte dal nuovo imperialismo emergente.
Per l'URSS, viceversa era ben chiaro,
avendo solo da pochi anni annientato l'accerchiamento degli eserciti
occidentali, sul proprio territorio successivo alla Rivoluzione
d'Ottobre, che l'imperialismo stava marciando inesorabilmente verso
un nuovo micidiale conflitto mondiale nel quale essa stessa rischiava
di soccombere.
L'unica risorsa a disposizione era la
lotta internazionalista dei popoli ed una sapiente disarticolazione
dell'unità del fronte avversario come fase necessaria per
l'accumulazione delle forze, economico-produttive e militari, per
reggere lo scontro finale.
Di fatto le sorti dell'URSS e del
futuro dei popoli liberi erano indissolubilmente legate.
In Europa l'insipienza, quando non la
complicità, delle diplomazie delle democrazie liberali aveva imposto
un'embargo pilatesco all'invio di armi e sostegno economico alla
nascente Repubblica Socialista di Spagna che avrebbe favorito la sua
sconfitta ad opera delle truppe di Hitler e Mussolini accorse a
sostegno di Franco mentre, dall'altro lato, solo L'URSS era entrata in campo a difesa
della Repubblica con l'invio di armi, denaro e la creazione delle
brigate internazionali.
Nell'estate del 1935 il VII congresso
dell'Internazionale Comunista aveva varato la tattica dei Fronti
Popolari prendendo atto dell'isolamento dell'URSS sul piano
internazionale. A fronte della battuta d'arresto della rivoluzione in
Europa (la sconfitta di quella tedesca ecc.) emergeva nel campo
imperialista un pericolo ben maggiore di quello fino ad allora
rappresentato dal capitalismo delle democrazie liberal-borghesi: il
fascismo e il nazismo come sintesi tra gli appetiti imperialisti
della grande finanza internazionale, lo spirito eversivo e
reazionario delle vecchie e nuove borghesie nazionaliste e l'emergere, come fenomeno di massa, dei ceti medi subordinati che reclamavano il proprio protagonismo. La politica dei Fronti popolari favorirà l'alleanza
con tutte le forze di sinistra e progressiste nei vari paesi, come
infatti in Spagna e Francia, dove per effetto dell'unità elettorale
dei Partiti Comunisti, di quelli Socialisti, degli Anarchici e del
resto della sinistra erano arrivati al governo coalizioni
rappresentative del proletariato e delle masse subordinate.
I comunisti arrivarono anche ad attuare
alleanze con forze genuinamente borghesi, per quanto schierate su
posizioni oggettivamente progressiste e antimperialiste per via della
loro collocazione nello scacchiere geopolitico internazionale.
E' quello che succede ad oriente dove i
comunisti fanno fronte comune con il KMT di Chiang Kai-Shek che
rappresentava ancora (non senza contraddizioni che esploderanno in
seguito in tutta la loro drammatica essenza) l'esperienza democratico
borghese della repubblica di Sun Yat Sen del 1912, ed era in grado di
opporsi all'invasione delle truppe dell'Impero del Sol Levante.
Purtuttavia la direzione di Dimitrov
dell'Internazionale Comunista era estremamente chiara sul carattere
contingente, antifascista e antimperialista, delle nuove alleanze. La
rivoluzione sociale non era rimandata ma semplicemente si prendeva
atto che quella dei Fronti Popolari fosse la tattica migliore, nel
nuovo e mutato quadro dello scontro interimperialistico che avrebbe
portato inesorabilmente all'esplosione di un nuovo conflitto a
carattere globale, per favorirne il percorso.
Tale nuovo ambito di riferimento dei
comunisti creerà il presupposto per aggregazioni e unità d'intenti
fino a quel momento inediti. Ciò avverrà, ad esempio, nell'Africa
Orientale.
Nello scacchiere dell'Africa orientale,
infatti, i servizi segreti inglesi e francesi erano arrivati alla
determinazione che era necessaria qualche forma di azione pur
semplicemente per difendere le proprie adiacenti colonie,
rispettivamente, di Sudan e Kenia, e della Cote Francais des Somalis
che rischiavano di soccombere se non si fosse bloccato il
protagonismo italiano che fino a quella data la stessa Gran Bretagna
aveva agevolato nella regione in funzione antifrancese.
...“In un rapporto segreto, verso
la fine del 1936, il capo della Section d'Etudes di Gibuti, De
Jonqueries, così scrive: << Se si vuole in caso di conflitto
con l'Italia tentare di salvare Gibuti (…) il metodo migliore
consiste nel portare la rivolta nel cuore dell'Africa Orientale
Italiana>> Esponendo il suo piano, De Jonqueries lo articola in
quattro punti: 1: preparazione politica, in stretto collegamento con
i capi con i quali siamo in contatto. 2. propaganda clandestina,
destinata a mantenere in Etiopia uno stato di ostilità latente. 3.
Appoggio ai movimenti di rivolta attuali (sostegno finanziario ai
capi ribelli e facilitazioni per il contrabbando d'armi). 4.
Costituzione di bande sul nostro territorio (stoccaggio di armi e
censimento dei patrioti rifugiati).Questo progetto di guerra
sovversiva è approvato dal governo di Parigi (il
governo del Fronte Popolare del socialista Leon Blum che da li a poco
sarebbe arrivato al suo termine) e verso la fine del 1937
vengono stabiliti regolari contatti con Abebe Aregai e con Gherarsù
Duchì. Ma gli italiani sorvegliavano scrupolosamente le frontiere
con la Costa dei Somali rendendo
estremamente difficile il rifornimento di armi ai ribelli. Ciò
obbliga i francesi a prendere in considerazione l'opportunità di
agire a partire dal Sudan anglo-egiziano, che confina con le regioni
più ostili al dominio italiano e perciò più facili da
attraversare. Nell'aprile del 1938 il ministro delle Colonie, Georges
Mandel, e il generale Buhrer prendono contatto con l'Alto Comando
britannico per organizzare al più presto un'azione comune in Africa
Orientale. Il momento, però, non è molto propizio, poiché gli
inglesi stanno per firmare con Roma l'Accordo dei due Imperi, e mai come in questo periodo essi corteggiano l'Italia
nella speranza di incrinare l'asse Roma-Berlino.
L'intesa viene perciò raggiunta
soltanto nella primavera del 1939, quando ormai l'Italia è
considerata irrecuperabile e lo scontro inevitabile...(
Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol.III).
Nel giugno ad Aden
viene raggiunta un'intesa tra il generale Le Gentilhomme, comandante
delle truppe di stanza nella Cotè Francais des Somalis e il
comandante in capo delle forze britanniche del medio oriente circa la
costruzione di un comando unificato e per il sostegno ad una rivolta
generale in Etiopia tramite ogni azione atta a favorire lo sviluppo
spontaneo della resistenza in vista di un attacco degli alleati
contro gli italiani. E' in questo
scenario che matura la decisione della missione in Etiopia dei
comunisti italiani.
L'inimmaginabile,
soltanto poco tempo prima, unità d'intenti con forze
tradizionalmente collocate sul campo politico opposto, fa maturare
nel Partito Comunista d'Italia, d'accordo con l'Internazionale
Comunista, la decisione di organizzare una missione.
Ciò fu reso possibile da una
straordinaria azione di diplomazia tra i servizi segreti di Francia e
Inghilterra da un lato, di Di Vittorio, Grieco e Berti per
l'Internazionale e il Partito Comunista d'Italia e Tede Uolde
Hawariat ultimo rappresentante etiope presso la Società delle
Nazioni.
La singolarità di questo evento mette
insieme gli apparati di intelligence di
due potenze imperialiste, i rappresentanti di uno stato spodestato, dalla millenaria natura confessionale e teocratica, e alcuni militanti
di uno dei più importanti partiti comunisti occidentali.
In una riunione avvenuta a Parigi
furono consegnati, come credenziali per i comunisti, delle lettere
con i timbri e la firma dell'imperatore Hailè Selassiè.
C'è da dire che già nel 1937 tra i
comunisti impegnati nella resistenza repubblicana spagnola al
fascismo era già circolata l'ipotesi di un intervento in Abissinia.
Da una testimonianza di Anton Ukmar raccolta da cesare Colombo per
conto dell'Istituto Gramsci risulta che già allora Ilio Barontini
parlasse dell'opportunità di inviare una missione delle Brigate
Internazionali.
Paolo Spriano nel III volume della
“Storia del Partito Comunista Italiano (Einaudi, Torino 1970)
riporta il verbale di una riunione della segreteria del partito
dell'8 dicembre 1938 : “...Dopo prende la parola il compagno in
questione (Nicoletti),
esponendo il suo piano di lavoro. Tutte le decisioni dovranno venire
realizzate nei prossimi giorni. Entro la fine di gennaio il Partito
dovrà trovare ancora tre o quattro elementi che possono raggiungere
in Etiopia il compagno che parte.
Nei fatti si decise
per due missioni, la prima ad opera di Barontini.
Pertanto già
prima della conferenza di Aden
vengono inviati in Etiopia due quadri politici che avevano avuto un
ruolo rilevante nella guerra di Spagna: lo stesso Barontini e Paolo
De Bargili.
Entro breve tempo la missione fu pronta
a partire e i due compagni assunsero per l'occasione due pseudonimi
di origine religiosa, probabilmente per essere meglio accettati tra
gli etiopi estremamente suggestionabili (o almeno così credevano gli italiani) nella loro tradizione religiosa cristiano-ortodossa: Barontini era Paulus e De Bargili Joannes.
Fabio Baldassarri che recentemente ha
curato una biografia di Ilio Barontini servendosi anche di
testimonianze di compagni livornesi, cioè concittadini di Barontini
che avevano appreso notizie sul suo conto dal medesimo protagonista
delle stesse, parla soltanto di Paulus ovvero pertanto solo di
Barontini che, nell'approssimarsi della data della partenza visse un
periodo di isolamento in un'abitazione francese al fine di farsi
crescere la barba e operare qualche altro cambiamento di connotati.
(Fabio Baldassarri, Ilio Barontini un garibaldino del '900, Teti
editore)
Intanto la polizia fascista e i servizi
segreti di mezzo mondo già da tempo erano sulle tracce di un tal
Paul Langrois del quale si comincia a paventare la presenza in
Etiopia. Per il generale della PAI (Polizia dell'Africa Italiana)
Marraffa è Paolo De Bargili, ma in realtà ancora oggi la sua vera
identità è avvolta dal mistero. Per il dirigente comunista Anton
Ukmar, da una testimonianza del dopoguerra, sarebbe invece il
dirigente comunista Velio Spano ma successivamente sarà smentito da
Giorgio Amendola e dalla stessa moglie di Spano, che pur ammettendo
la presenza di Spano in Egitto in quel periodo nega che egli sia
stato anche in Etiopia. In effetti Velio Spano era stato in Egitto,
ma nel 1935, e della sua azione, o tentativo di azione, se ne ha
traccia presso l'Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri
(ASDMAE), Ministero dell'Africa. Da un'informativa di polizia del
Tenente Colonnello Princivalle al Governo dell'Eritrea (Asmara 19
febbraio 1935), si apprende che il 27 dicembre del '35 furono trovati
a Suez dentro a tre scatole di tabacco, alcuni volantini
antifascisti in italiano.
Era un primo tentativo di azioni di
propaganda del PCdI rivolta alle truppe dell'esercito italiano che
passavano da Suez per dirigersi verso il porto di Massaua, nella
colonia Eritrea, per dare inizio all'invasione dell'Etiopia.
Per altri Paul Langrois sarebbe una
delle tante identità assunte dallo stesso Barontini. La confusione
su questo punto è massima! E questo non è casuale.
Non è casuale che anche tra i
dirigenti comunisti le informazioni e le testimonianze su quei fatti,
che rimanevano alla fine del conflitto, fossero episodiche e spesso
contraddittorie. Ciò dipende dalla formidabile struttura leninista
clandestina del partito, forgiato in periodo fascista nella
clandestinità e come “struttura d'avanguardia del proletariato
composta da rivoluzionari di professione”, che non consente la
conoscenza di fatti ed azioni se non ai componenti delle cellule
strettamente interessate ed a pochissimi altri nelle strutture di
collegamento che, tuttavia, non conoscono, eccetto un contatto, gli
altri componenti delle cellule stesse.
I due comunisti prendono contatti con i
servizi segreti britannici e, con gli emissari di Hailè Selassiè.
Partiti dalla Francia attraversano l'Egitto e il Sudan per trovarsi
nel dicembre del 1938 in territorio etiope, nel Goggiam, nei pressi
del lago Tana, dove si pongono al seguito del degiac (generale)
Mangascià Giamberiè e dove
le azioni della resistenza etiope sono più numerose e il suo
controllo sulle foreste e le campagne maggiore.
Una prima lettere di Barontini giunge
attraverso Khartoum : “...la mia salute è buona, nonostante la
vita sia dura, dormire sulla terra, mangiare quando si trova,
mangiare quello che c'è, bisogna avere uno stomaco di struzzo.
Bisogna avere un fisico molto resistente. Al momento sono decisamente
in forze, ci sono degli indigeni che nella zona terribile per la
malaria hanno preso la febbre; al contrario io sto bene. È 26 giorni
che passo da villaggio a villaggio, ho visitato fino ad ora tre
grandi regioni. L'unico sistema di trasporto le nostre gambe, salire
e scendere continuamente, di giorno il termometro segna 30-35 gradi
all'ombra, la notte scende a 8-10. La situazione è buona. I
contadini mi hanno fatto le migliori manifestazioni di amicizia, di
rispetto, di considerazione, ho fatto e faccio tutti i giorni delle
riunioni dando delle istruzioni, dei consigli, istruzioni militari,
modo di combattimento, sul problema della salute, etc. Sono sorpreso
poiché non ho mai trovato un pubblico più attento che qui, questi
contadini sono molto intelligenti, imparano bene e dopo i miei
discorsi manifestano per me una grande venerazione. Il documento del
Negus è veramente formidabile. Penso che solamente la mia presenza
qui è un successo, si riprende fiducia, ci si rinforza per
sviluppare un miglior lavoro, per un lavoro più intensivo. Qui ci
sono molti uomini disposti a combattere, ma non ci sono armi a
sufficienza per armare tutti gli uomini disponibili. Ogni paese ha il
suo armamento; ho visto centinaia e centinaia di fucili, ma ho
constatato che provengono da diverse marche, questo fatto complica la
formazione di unità omogenee. [...] I combattenti hanno una buona
conoscenza per utilizzare le mitragliatrici; ma non ci sono
munizioni. [...] Domani andiamo al combattimento, gli indigeni sono
formidabili per il combattimento, ho visto un contadino donare una
vacca per avere due cartucce per la sua arma. I preti sono sempre
dalla parte della popolazione, ci sono dei preti veramente
meravigliosi, sono in buoni rapporti con loro. Qui ci sono delle
camicie nere che ti seguono non appena gli fai vedere un po' di
soldi. Al momento ne ho una accanto a me che mi fa divertire.
(lettera di Ilio Barontìni,
Kartoum 6 febbraio 1939,inviata il 22 marzo, conservata presso il
patrimonio archivistico dell'Istituto Granisci, tradotta dal francese
e riportata da Matteo Dominioni in: Lo sfascio dell'Impero, Laterza
2008).
Una
seconda lettera viene scritta il 9 maggio ed è indirizzata da
“Jacopo” a “Tuti”: ...sono cinque mesi che il
nostro compagno è in sede riconosciuto ufficialmente in base alle
credenziali di ampia fiducia del Negus ed egli ormai ha preso la
direzione militare di tutto quanto c'è di attivo e di combattivo
laggiù e si tratta di parecchie decine di migliaia di uomini”
(sempre da “Matteo Dominioni,
op.cit.).
Nello schieramento opposto, quello
delle forze d'occupazione italiana presso il comando di Gondar
abbiamo una testimonianza della situazione di conflitto permanente
esistente nella regione.
Curzio Malaparte, incaricato di un
reportage giornalistico dal Corriere della Sera, con lo scopo di
rassicurare la popolazione italiana a proposito della propaganda
inglese antiitaliana, percorrerà nei primi mesi del 1939, al seguito
di un contingente militare italiano, la rotta di rifornimento
Massaua, Asmara, Adua, Bahir Dar, Addis Ababa. Nell'articolo
intitolato “Passaggio di armati per le alte terre dell'Uoranà”
non può fare a meno di descrivere, per quanto con toni rassicuranti
e dissimulati, un attacco degli sciftà
(briganti) e di un territorio del quale gli era stato sconsigliato il
transito ( articoli adesso ripubblicati in “Curzio Malaparte,
Viaggio in Etiopia ed altri scritti africani, Vallecchi 2006)
Sin da subito i due
comunisti assumono le mansioni di istruttori militari e consiglieri.
Del
“misterioso” Paul Langrois ci lascia una testimonianza il
prigioniero italiano, capitano Bertoja, tramite Vittorio Longhi che
era stato inviato nella regione del Goggiam per trattare la sua
liberazione. Bertoja era stato precedentemente catturato dallo stesso
degiac Mangascià ed
ebbe modo di incontrare il presunto Langrois presso il villaggio di
Fagutta e, naturalmente, considerandolo un traditore, lo descrive in
maniera molto poco lusinghiera. Inoltre per Bertoja il compito che
Langrois vuole portare a termine è quello di unificare l'azione
delle tante bande di resistenti, spesso in conflitto reciproco, sotto
un unico comando.
...”Sempre
secondo Bertoja, Langrois è anche diventato il consigliere politico
del piccolo gruppo di intellettuali che gravita intorno a Mangascia
Giamberiè e che stampa alla macchia il settimanale ciclostilato La Voce degli Etiopi. Ed ancora a lui il generale Marraffa
attribuisce la paternità dei volantini che vengono diffusi in molte
parti del Goggiam e che sono firmati da Il Comitato che Lotta per l'Indipendenza dell'Etiopia. Dice uno di questi
manifestini: << ora l'Italia non ha più oro e argento; le
banconote che vi danno non hanno più valore, sono come i marchi del
1918. Oh popolo d'Etiopia, attenzione! Non accettate le lire di
carta. Gli italiani vi ingannano>>. (Angelo
Del Boca, op.cit.).
Nella primavera del 1939 una seconda
missione raggiunge gli stessi territori dell'Etiopia. Su questa si
hanno maggiori ragguagli forniti da uno dei protagonisti, il
comunista triestino Anton Ukmar, già combattente nelle brigate
internazionali in Spagna e successivamente, nel '43 comandante della
lotta partigiana in Liguria con il nome di battaglia di Miro.
Testimonianze sulla figura di Ukmar e sulla sua impresa in Etiopia si
hanno dalla sua stessa relazione pubblicata nel 1966 su Rinascita e
dalle pubblicazioni del comandante partigiano G.B. Lazagna, oltrechè
dalle edizioni dell'Anpi e in altri testi. Ukmar afferma che la
missione gli fu affidata da Di Vittorio a Parigi. “La nostra
missione consisteva in questo. Aiutare la popolazione etiopica nella
mobilitazione contro l'aggressione colonialista e nella costituzione
di un esercito partigiano; non si trattava di svolgere un lavoro di
partito, né di presentarci come italiani ma semplicemente come
membri delle Brigate Internazionali” .
Insieme
ad Ukmar fa parte della missione lo spezino Bruno Rolla, già
commissario politico della sezione clandestina del Partito a Palermo
e combattente di Spagna nella 12a
Brigata Garibaldi. Con loro ci sono il
colonnello francese Paul Robert Mounier, del servizio d'informazione
militare francese e simpatizzante della politica del Fronte Popolare,
e Lorenzo Taezaz, uno dei più attivi collaboratori del Negus in
esilio. Per Baldassarri, nella citata biografia di Barontini, Ukmar
prenderebbe il nome di Johannes, Rolla quello di Petrus e Mounier
quello di Andreas. La missione, sullo stesso percorso in territorio
egiziano-sudanese sotto tutela delle truppe britanniche, presto
raggiunge Ilio Barontini nel Goggiam. “...Ci mise al corrente
della situazione e discutemmo insieme su da farsi: dovevamo riuscire
a convincere gli etiopici ad abbandonare la struttura a grosse bande
di 1000/2000 uomini, dei quali soltanto una parte armati di fucili,
dato che queste formazioni erano lente nei movimenti e facilmente
localizzabili; infatti venivano puntualmente scoperte e massacrate;
essi avrebbero dovuto costituire gruppi più piccoli e mobili.
Inoltre avremmo dovuto persuaderli a non uccidere più i prigionieri
ma a disarmarli e lasciarli liberi...I guerriglieri etiopici
avrebbero dovuto anche cercare di mantenere i territori liberati.
Nostro compito sarebbe stato quello di mantenere i contatti con i
capi della rivolta, coordinare le loro azioni, evitare i conflitti
fra le varie formazioni, in modo da unificare nella lotta contro
l'esercito coloniale tutte le energie” (Rinascita,
n. 19, 7 maggio 1966 riportato anche in “Angelo Del Boca, op.cit.).
Inoltre si
attribuiva particolare importanza all'opera di propaganda presso la
popolazione e presso i militari italiani. Tramite un ciclostile
veniva dato alle stampe un foglio metà in italiano e metà in
amarico dal nome “La voce degli etiopi” con tiratura settimanale
che poi veniva diffuso, fra le truppe italiane, dalle donne, in
quanto meno sospettabili, che contemporaneamente carpivano
informazioni fondamentali per la guerriglia. E' certo inoltre che si
tentò di costituire una sorta di governo “ribelle” affinchè
cominciasse ad essere riconosciuto un contropotere nei territori
interessati dalla guerriglia.
Per mettere in
pratica questo programma Barontini, Ukmar, Rolla e Monnier
intraprendono viaggi, spesso ognuno singolarmente per tutto il vasto
territorio del nord Etiopia che va dall'Ermacciò, al Beghemeder, al
sud del lago Tana, al Goggiam.
E' certo che
Barontini fu raggiunto da Lorenzo Taezaz in agosto e svolse la
propria azione presso il degiac Mangascià, Ukmar operò nella zona di
Gondar, attorno al Lago Tana, nell'Alto Nilo Azzurro e nel Goggiam.
Ma fu un compito
irto di pericoli sopratutto a causa delle bande di mercenari
sguinzagliati alla loro ricerca da parte delle autorità militare
italiane e dalla rissosità tra le varie bende di resistenti etiopi.
Inoltre Monnier
muore improvvisamente a causa delle febbri malariche mentre si
spostava nella zona di Harar, ad est nel territorio etiopico, per
prendere contatti con altri nuclei di ribellione.
Stessa sorte
rischia di toccare ad Ukmar, ammalatosi anch'egli, e a Rolla a causa
di una infezione ad una ferita che rischiava di degenerare.
Ukmar intanto
aveva fatto chiamare i compagni mettendoli al corrente del suo stato
di pericolo: “...Dapprima
Ukmar ricevette un po' di latte, poi più niente.
Vennero
due stregoni. Bruciarono erbe aromatiche e, infine, visto che non
ottenevano alcun risultato, lo misero fuori dal tucul per lasciarlo
morire. Dopo un po' lo privarono delle armi e degli oggetti di
qualche interesse e lo trasportarono all'esterno del villaggio per
abbandonarlo sotto un albero. Era la morte certa, anche per opera
degli animali, se in quel momento non fosse arrivato Ilio Barontini.
Era
sera e Ilio sentì pronunciare il nome che gli abissini avevano
affibbiato ad Ukmar: Oghen. Barontini scorse il compagno e si rese
conto che era in condizioni disperate. Gli apri la bocca con la lama
della baionetta e gli fece ingoiare del chinino; poi lo fece caricare
su un cammello e si avviò verso il Goggiam. A Barontini, quando era
arrivato nel villaggio, era stato detto che iI suo amico poteva
considerarsi morto. Trasferito in un altro villaggio, Ukmar pote
invece riaversi rapidamente grazie a qualche settimana di riposo e ad
un po' di recupero nell'alimentazione.
Anche Rolla si ammalo
di li a poco. Una ferita ad un dito suppurò facendogli gonfiare
tutto il braccio. Ancora una volta Barontini accorse in tempo. Gli
pratico delle inieizione sulla ferita,
la ripulì ben bene e Rolla guarì. ”
(Fabio Baldassarri, op. cit.)
Al colmo della
malasorte anche quel minimo di dotazioni tecniche del gruppo si
esauriscono. La radio smette di funzionare pertanto non potendo più
ricevere istruzioni Ukmar, Rolla e Barontini decidono di sospendere
la missione e di rientrare in Europa preceduti da Lorenzo Taezaz e
De Bargili (Paul Langrois ?!).
Nella decisione di
porre fine alla missione senz'altro ebbe un ruolo fondamentale il
cerchio poliziesco che si stava per chiudere attorno al gruppo.
Infatti già dal
1935 la polizia italiana teneva sotto controllo le intenzioni e i
progetti degli esuli antifascisti a Parigi: “...In una riunione
promossa a Parigi da «Giustizia e Libertà» fra rappresentanti
antifascismo italiano si sono esaminati mezzi idonei svolgere
propaganda negativa fra nostre truppe e particolarmente fra quelle
destinate Africa Orientale. Tra l'altro si è pensato inviare in
Abissinia, previ accordi con rappresentante diplomatico etiopico a
Parigi, qualche elemento del movimento antifascista per svolgere
azione sul posto, a mezzo stampati da distribuirsi fra nostre truppe
dislocate frontiera Somalia ed Eritrea. Fondi necessario dovrebbero
essere forniti dal Governo Etiopico cui si chiederebbero anche
garanzie per nostri soldati che si lasciassero convincere propaganda
a passare al nemico...” (ASDMAE,MA//7,
posiz. 181/6, fase. 3, telegramma n. 2693 di Lessona a De Bono, Roma,
26 marzo 1935; telegramma n.3541 di Emilio De Bono al Governo di
Mogadiscio, Asmara 31 marzo 1935. Riportato in Matteo Dominioni op.
cit.)
E
ancora: “...viene
riferito da fonte confidenziale che si starebbe organizzando in
Francia una legione di italiani fuorusciti, a spese delle
Internazionali. Anche trattandosi di poche persone, essa potrebbe
provocare incidenti gravi per i rapporti franco italiani in questo
momento delicatissimo. Pare che la legione dovrebbe imbarcarsi -
clandestinamente - per prendere servizio a favore del Negus in
Abissinia. [...] È possibile del resto che le Internazionali mirino
soltanto a fare scandalo; a dimostrare all'opinione che vi sono
italiani disposti a combattere per il Negus. Subordinatamente poi, a
scagliarsi contro il signor Lavai se impedisse la sedicente
spedizione...” (ASDMAE,MAIII,
posiz. 181/56, fase. 271, lettera senza numero della Regia ambasciata
di Parigi a firma Cerruti, Parigi 18 settembre 1935. Riportato in
Matteo Dominioni op. cit.)
Successivamente
giunse dall'Ambasciata italiana di Parigi un telegramma che
momentaneamente escludeva azioni degli antifascisti in Etiopia:
“...da
accurate indagini esperite è risultato che la notizia riguardante la
legione dei volontari italiani antifascisti per l'Etiopia non trova
conferma in questi ambienti comunisti ed antifascisti in genere. Il
progetto venne discusso, ma sembra, poi scartato per ragioni di
opportunità...”. (ASDMAE,MAIII,
posiz. 181/56, fase. 271,telespresso n. 214747 del ministero degli
Affari Esteri al ministero dell'Africa Italiana, Roma 30 aprile 1936
. Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
In
Etiopia la cognizione delle strutture di polizia italiane, circa natura e programmi della missione comunista, ben presto cambia attribuendole un grado di maggiore pericolosità.
Questo avviene a
causa del rapporto di Vittorio Longhi che mediava la liberazione del
capitano Bertoja, di cui abbiamo già accennato. Il rapporto venne
letto dal Ministro delle colonie Lessona e dallo stesso Mussolini e
disegna il ritratto di Paul Langrois: “è
un individuo di circa 40 anni, statura media, un po' curvo di spalle
ma energico nel portamento; capelli, barba e baffi castano scuri,
occhi neri, miopi; generalmente parla sfuggendo lo sguardo
dell'ascoltatore; dentatura guasta, mancante di parecchi molari; ha
una piccola cicatrice alla regione parietale destra, molto vicina
all'occhio. Sguardo acceso, quasi da alcolizzato. Ha molta tendenza
alle donne. Si fa passare per generale dell'esercito francese e
racconta di essere stato in Spagna ed in Russia, ma parla
mediocremente la lingua francese e conosce invece molto bene la
lingua italiana, che parla con accento toscano. Il capitano, durante
la sua prigionia, confidò a Longhi che l'emissario non era affatto
uno straniero e neppure un generale, bensì un rinnegato italiano,
invasato da idee antifasciste e probabilmente un giornalista. Si fa
chiamare Paul Langlois e varie volte espresse a Longhi idee
antifasciste, dichiarando altresì di appartenere al partito
democratico sociale francese e che l'unico scopo della sua vita era
di servire l'antifascismo internazionale. Si presentò al deggiac
Mangascià con alcune credenziali munite del sigillo dell'ex negus, e
sulle quali era incollata, per riconoscimento, la propria fotografia.
L'azione dell'emissario non fu precisamente militare, ma
propagandistica. Egli cercò di far riappacificare i deggiac ribelli,
invitandoli a riunirsi compatti a combattere le truppe del governo ed
aiutarsi vicendevolmente. Inviava delle relazioni nel Sudan e
raccontò a Longhi che Karthoum era il centro dal quale si diramava
la propaganda in A.O.I. e destinazione delle sue relazioni e delle
pellicole cinematografiche da lui prese. A Karthoum i suoi
corrispondenti trasmettevano le relazioni a Parigi, ove si troverebbe
il centro della propaganda antifascista e antitaliana e dove si
sosterrebbero le mire del partito nazionalista etiopico. Disse pure
di essere stato a Londra per una settimana, espite dell'ex negus, ma
il Longhi notò che l'emissario non conosceva alcuna persona del
vecchio governo negussita e ciò gli apparve strano dato che molti
seguaci si trovano ancora presso l'ex negus. L'emissario aveva per
interprete un eritreo che il Longhi conobbe a Cheren che fu anche
ascari del IV Battaglione, certo Emanuel Mangascià Burrù, maestro
della scuola Salvago Raggi di Cheren. Altro interprete ai servizi
dell'emissario era certo Atò Asseghei di Adua il quale dichiarò a
Longhi, che l'emissario era persona nota anche al Duce e che in
Spagna aveva prestato segnalati servizi per la causa del comunismo.
(ASDMAE,MAIII
posiz.
180/42, fase. 138, allegato al foglio n. 146636 di prot. di Amedeo di
Savoia al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 7 dicembre
1939. Riportato in Matteo Dominioni op.cit.)
Da
questo momento si moltiplicano le informative di polizia, le
segnalazioni sulle azioni del gruppo e il cerchio inesorabilmente si
stringe. Sempre il 7 dicembre del 1939 il duca Amedeo d'Aosta (che
intanto aveva sostituito Rodolfo Graziani nella carica di vicerè
della colonia Etiope) inviò al Ministero dell'Africa Italiana copia
delle pubblicazioni dei ribelli e lo informò circa la loro dotazione
di mezzi tecnici: “macchine
fotografiche, una macchina da scrivere, una stazione ricetrasmittente
e un poligrafo”.
( ASDMAE,MAIII
foglio
n. 14764 di prot. di Amedeo di Savoia al ministero dell'Africa
Italiana, Addis Abeba 7 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La
missione Barontini in Etiopia. La singolare vicenda di un anomalo
fronte popolare antifascista, Studi Piacentini).
Il
18 dicembre è la volta del generale Nasi a trasmettere al Ministero
un'altro bando del presunto Langrois che era destinato ai capi della
regione del Buriè. ( ASDMAE,MAIII
foglio
n. 145446 di prot. del generale Nasi al ministero dell'Africa
Italiana, Addis Abeba 18 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La
missione Barontini op cit.)
A
gennaio la polizia dell'Africa Italiana diffonde una foto del
presunto Langlois in compagnia di Mangascià e di Mesfin Scibesci.
Cominciano a sorgere i primi dubbi sull'identità del Langlois.
(Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit.)
L'ispettorato
generale del PAI di Addis Abeba, grazie ad un'ulteriore deposizione
del Longhi comincia a disegnare un ritratto più preciso del
Langlois: “...il
così detto Paul Langlois è certamente italiano, e per meglio
precisare toscano. Parla assai male il francese; fu in Spagna con i
rossi ed in Cina con Ciang Kai Scek. A suo dire fu maggiore
dell'esercito italiano e riveste il grado di generale (?) nella
legione straniera. Giunse presso il Degiac Negasc il 18 marzo 1939,
proveniente da Parigi donde era partito il 1° gennaio 1939 e dove
faceva parte del partito democratico italiano. Entrò in A.O.I. dal
Sudan Anglo, sfuggendo alla sorveglianza delle nostre truppe. Aveva
con se due lettere autografe dell'ex negus, una per il Deggiac Negasc
e l'altra per il «popolo del Goggiam» incitanti alla resistenza
contro il Governo Italiano...”.(ASDMAE,MAIII
foglio
n. 1258/5599 di prot. del generale Renzo Mambrini al Comando Generale
della Pai e ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 25 gennaio
1940. In Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit).
Successivamente
un'altra serie di informative interessò l'attività del gruppo
antifascista italiano arrivando anche a dettagliare il viaggio
intrapreso dal Langlois per raggiungere il capitano Monnier morente.
“Paul
Langlois fu identificato come Paolo De Bargili solamente nel marzo
del 1940. Dalla documentazio e dell'archivio del Ministero
dell'Interno (casellario politico centrale) la PAI venne a conoscenza
del fatto che sin dal 1923 Langlois era stato lo pseudonimo usato da
De Bargili. Mai però la PAI e la PS si accorsero che anche il nome
De Bargili era la copertura di un'altra identità, quella di
Barontini. E' un fatto singolare che nel casellario politico centrale
sia stata iscritta una persona inesistente. Un'ipotesi plausibile è
che Barontini si sia impossessato dell'identità di un connazionale
deceduto o emigrato clandestinamente e sparito all'estero” (Matteo
Dominioni, Lo Sfascio dell'Impero, op. cit.)
Nel 1940 cominciò
il percorso, attraverso gli stessi territori dell'andata, per il
rientro in Europa.
Ma non fu una
passeggiata, in quanto il gruppo, scortato da circa venti uomini e in
compagnia di preti e dignitari etiopi, fu intercettato da una banda
di mercenari e fu costretto a dividersi.
Nel punto di
ritrovo concordato Barontini tardò per parecchi giorni fino ad
essere considerato morto dai compagni. Fortunatamente, viceversa, il
gruppo riuscì a riunirsi a Karthoum e in fine a maggio si trovò al
Cairo per essere imbarcato da una nave della Croce Rossa francese per
Marsiglia, piuttosto che la Grecia, la Siria o la Turchia in base a
quella che era la loro preferenza. Barontini a marsiglia riuscì a
scampare all'arresto. Non ebbero la stessa fortuna i compagni che
furono imprigionati nel campo di Vernet d'Ariege.
Ma seguiamo il già
citato racconto di Cesare Colombo per l'Istituto Gramsci. “Nel
maggio del 1940 raggiunsero il fiume Altara girando al largo del lago
Tana. Era necessario passare per un passaggio obbligato, molto
pericoloso. Assieme ai tre italiani erano dei dignitari etiopi di cui
tre ammalati, due preti coopti ed una scorta di circa venti armati.
Vennero fermati da una banda di seicento etiopi, che erano stati in
parte armati dai fascisti proprio per l'antiguerriglia.
Questi richiesero le
armi pesanti e l'oro. lnfatti da tempo circolavano nel paese leggende
sui tesori degli emissari del Negus e dei loro aiutanti europei; si
parlava di trecento cammelli carichi d 'oro.
Ukmar, Rolla e due
etiopi, furono messi da una parte; Barontini, i due preti e due
etiopi, da un altra.
Fu detto che l'oro era
a Badaref, nel Sudan, e alla fine si accordarono che il gruppo di
Ukmar e Rolla sarebbe andato a prelevarlo; Barontini e gli altri
avrebbero aspettato.
Barontini aveva
suggerito il piano, e si era accordato segretamente per fuggire (la
tenda sua e degli etiopi che erano con lui si trovava al margine di
un bosco) e ritrovarsi in un punto determinato.
La scorta del gruppo di
Ukmar, Rolla e gli altri etiopi era stata scelta dai nostri: la
maggioranza era costituita da amhara una parte dei quali aveva già
combattuto con i patrioti e che al
momento buono
eliminarono quanti erano contrari a seguire le direttive dei
prigionieri; si recarono al luogo convenuto con Barontini e lo
aspettarono nove giorni; la banda che aveva fatto prigionieri i
nostri nel frattempo si era spostata, erano tutti convinti che
Barontini si fosse perduto nella foresta o fosse stato ucciso.
Passarono la frontiera e raggiunsero Kartum senza incidenti. Andarono
dall'ex-ministro etiope per riprendere i vestiti europei e gli
inglesi gli comunicarono: - Anche il vostro amico italiano sarà qui
domani. - Infatti Barontini, e gli altri che erano fuggiti con lui
grazie alla complicità degli amharici, si erano persi nella foresta
ed erano sconfinati nel Sudan, molto più a Sud.
Dopo otto o dieci
giorni, alla fine del maggio '40, giunsero al Cairo. Chiesero di
essere imbarcati per la Grecia o la Siria o la Turchia. Furono invece
imbarcati in un piroscafo francese della Croce
Rossa adibito al
trasporto di rifugiati francesi ed olandesi. Barontini riuscì a
sbarcare inosservato.
Rolla e Ukmar il giorno
dopo l'arrivo a Parigi furono arrestati e poi internati nei campo di
Vernet d 'Ariége. Si era ai primi del giugno 1940. Qualche giorno
dopo Parigi cadeva nelle mani dei nazisti.
(Per tutta la
vicenda del rientro in Europa vedasi anche l'articolo citato su
Rinascita, “B.Anatra, Partigiano sul lago Tana” e “E.
Barontini, V. Marchi, “Dario”).
Non si pensi che
i Nostri siano stati ricoperti di onori dai compagni di partito. Lo
stesso Barontini fu tenuto in isolamento, come in quarantena, intanto
che il partito sondava qualità politica e limpidezza delle sue
precedenti azioni. La logica della clandestinità non ammetteva
deroghe e Barontini era stato per circa 18 mesi in rapporto con
l'intelligence britannica, cosa che suscitava più di un sospetto.
(Vedasi sempre il libro della figlia di Barontini “Dario”).
Sempre
Del Boca riferisce nel mai superato Gli italiani in Africa
Orientale che questi non furono
gli unici italiani ad aver militato nella resistenza etiope. Il
grande storico dell'Etiopia Richard Pankhurst gli fece pervenire una
piccola nota frutto di una ricerca nella quale figurano tra i
combattenti etiopi il siciliano Saverio Sbriglio, che disertò per
prestare soccorso quale infermiere presso la formazione di Abebè
Aregai, e Alfonso P. che disertò per raggiungere le forze di Negasc
Bezabè nel Goggiam. Alfonso P. finirà i suoi giorni internato per
errore nel 1941, dagli inglesi, nel campo di concentramento di Dire
Dawa e verrà pugnalato al cuore da alcuni fascisti. Inoltre nel 1941, alla data della liberazione dell'Etiopia, saranno centinaia, forse qualche migliaio, gli "insabbiati". Ovvero gli italiani che avevano disertato ed erano spariti nell'immenso territorio del paese, facendosi una famiglia e conducendo un'esistenza spesso clandestina.
La missione degli
italiani, ad ogni modo, a quel punto avrà raggiunto importanti
obiettivi. Il rapporto redatto da Lorenzo Tazeaz per Hailè Selassiè
sarà di grande aiuto per spronare gli inglesi a rompere ogni
atteggiamento di indugio e passare a vie più concrete. Dal rapporto
emergerebbe l'estrema fragilità dell'apparato militare italiano
nonostante la sua superiorità di forze in campo; 300.000 uomini
contro gli appena 18.000 delle forze britanniche nelle colonie
adiacenti. Questo a causa dell'isolamento della colonia italiana
dell'Etiopia, dopo la chiusura di Suez da parte degli Inglesi, e
l'impossibilità da parte italiana di costruire una via di
penetrazione attraverso il deserto della colonia libica sfondando
attraverso il Sudan britannico. Inoltre in Etiopia permaneva una
dimensione di quasi contropotere delle forze della resistenza che
contendevano il territorio agli italiani, e che opportunamente
aiutate, nell'imminente conflitto generalizzato, avrebbero potuto
avere il sopravvento. Inoltre emergerebbe che Hailè Selassie, per
quanto la sua fama sia stata grandemente oscurata dall'abbandono del
territorio etiope, e per quanto emergano anche delle forze
repubblicane tra i resistenti, continua ad essere l'unica personalità
in grado di unificare e dirigere la resistenza. A questo punto
l'Inghilterra comincerà a finanziare e appoggiare attivamente la
resistenza.
Gaspare Sciortino. Aprile 2012.
Addis Ababa. Hailè Selassiè legge alla radio l'appello alle nazioni contro l'invasione italiana. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Addis Ababa. Si mobilita la guardia imperiale. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Addis Ababa. Si mobilita la guardia imperiale. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Addis Ababa. Si mobilita la guardia imperiale. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Addis Ababa. Si mobilita la guardia imperiale. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Addis Ababa. Si mobilita la guardia imperiale. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Mobilitazione dei guerrieri delle tribù. Cinegiornale Fox Movietone News 1935 |
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Vengono mobilitati anche i veterani di Adua. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Vengono mobilitati anche i veterani di Adua. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Dignitari Amhara con il seguito di guerrieri. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Dignitari Amhara con il seguito di guerrieri. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Ras e guerrieri. Cinegiornale Fox Movietone News 1935. |
Febbraio 1936. Truppe italiane nei pressi dell'Amba Aradam. Foto Fondo Bottai, Milano. |
Febbraio 1936. Truppe italiane nella battaglia dell'Amba Aradam. Foto Fondo Bottai, Milano |
Febbraio 1936. La bandiera del regno d'Italia sventola sull'Amba Aradam. Foto Fondo Bottai, Milano. |
Bombardamento aereo di un villaggio del Tigrè. |
Addis Ababa 1936. Soldati etiopi rispondono a fucilate agli aerei italiani. |
L'avanzata della colonna Badoglio su Addis Ababa. Al centro lo stesso Badoglio con Lessona, ministro delle colonie. Foto Fondo Bottai, Milano. |
Addis Ababa 5 maggio 1936. La popolazione sventola drappi bianchi in segno di resa all'ingresso in città della colonna Badoglio. Foto Fondo Bottai, Milano |
Addis Ababa 5 maggio 1936. La popolazione sventola drappi bianchi in segno di resa all'ingresso in città della colonna Badoglio. Foto Fondo Bottai, Milano |
5 maggio 1936. Badoglio entra in Addis Ababa. Foto Fondo Bottai, Milano. |
Addis Ababa 1937. I magazzino Kevorkoff trasformati in Casa del Fascio.
Foto della collezione privata Berhanu Abebe.
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1938-39. Ilio Barontini in Etiopia nel Goggiam. Foto dell'archivio storico dell'Unità. |
1938-39. Ilio Barontini in Etiopia nel Goggiam. Foto dell'archivio storico dell'Unità. |
Ilio Barontini tra i partigiani etiopi. Archivio storico dell'Unità |
Partigiani etiopici addestrati da Barontini. Archivio storico dell'Unità. |
Ilio Barontini era nato a Cecina
(Livorno) il 28 settembre 1890.
Fu, fin dall'età di 13 anni, un
militante anarchico di Livorno. A 15 anni lavorava già come operaio
tornitore presso il Cantiere Orlando quando si iscrisse al Partito
Socialista. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale si
dichiarò "non interventista". Dopo la guerra, nel 1919,
partecipò ai lavori del gruppo politico dell' Ordine Nuovo, fondato
da Antonio Gramsci.
Nel 1921, fu fra i fondatori del
Partito Comunista d'Italia nel Congresso di Livorno. Successivamente
fu eletto sia come Consigliere Comunale che responsabile della Camera
del Lavoro della CGIL della città di Livorno.
Con l'avvento del fascismo subì
arresti, denunce ed aggressioni, ma non si arrese mai è tornò
sempre alla militanza politica.
Fra i dirigenti del Partito Comunista
d'Italia fa parte della minoranza che è favorevole all'ingresso
delle formazioni antifasciste di difesa del partito nel Fronte Unito
Arditi del Popolo.
Nel 1931 espatriò avventurosamente in
Francia con una pericolosa attraversata in barca che lo lasciò in
Corsica per sfuggire ad una condanna a tre anni inflittagli dal
Tribunale Speciale fascista. In Francia si rifugiò a Marsiglia, da
dove tenne le fila del lavoro clandestino tra gli esuli italiani
antifascisti.
Trasferitosi in URSS Barontini
perfezionò le sue capacità militari presso i centri di
addestramento dell'Armata Rossa, in particolare frequenta l'Accademia
Frunze a Mosca, uscendone con il grado di Maggiore.
Il suo primo incarico con quel grado è
in Cina, in appoggio al Partito comunista cinese di Mao. (Non
esistono in proposito fonti documentarie certe) Sarà questa
esperienza a metterlo per la prima volta in contatto con le tecniche
della guerriglia ampiamente usate e sperimentate dai comunisti
cinesi.
Nel 1936 Barontini si trovava in Spagna
all'inizio della Guerra civile. Sostituì Randolfo Pacciardi, ferito
nella battaglia di Guadalajara, dimostrando, a detta di Giovanni
Pesce, altro capo storico delle Brigate Internazionali, capacità
eccezionali di trascinatore militare.
Nel 1938 si trasferisce, su ordine di
Giuseppe Di Vittorio, in Etiopia. Con lui c'erano anche altri
esponenti dell'Internazionale Comunista: i cosiddetti "tre
apostoli": Barontini era Paulus, Bruno Rolla, della Spezia, era
Petrus, e il triestino Anton Ukmar era Johannes. Il gruppo degli
"apostoli" fondò il foglio La Voce degli Abissini,
addestrò ed organizzò i ribelli etiopici fino al punto che il Negus
"appioppò" a Barontini il titolo di "vice-imperatore".
Rodolfo Graziani mise una taglia su di lui, ma il Barontini riuscì a
fuggire, ben accolto dal generale inglese Harold Alexander a
Khartoum, che gli diede una decorazione per i meriti acquisiti
nell'organizzazione della ribellione all'invasione fascista in
Etiopia.
Nel momento in cui la Francia cadde
sotto il controllo dei nazisti con l'inizio del governo Petain,
Barontini è lì ad organizzare i nuclei di partigiani francesi della
FTP, fidando sull'appoggio anche della classe operaia francese che
mal sopportava gli occupanti tedeschi.
I partigiani francesi del Maquis
utilizzarono nei combattimenti delle bombe soprannominate "Giobbe",
così chiamate dal nome di battaglia utilizzato in Francia da Ilio
Barontini.
Quando Barontini tornò in Italia per
partecipare alla lotta partigiana, assunse il nome di battaglia di
"Dario".
Organizzò le Sap e i Gap a Torino, a
Milano, in Emilia, a Roma. Di lui parla con grande ammirazione
Giorgio Amendola in Comunismo, antifascismo, resistenza. Anche
Antonio Roasio, nel suo libro Figlio della classe operaia descrive le
peregrinazioni fatte nel centro-nord della penisola da Ilio Barontini
e del come insegnasse a gappisti e sappisti le sue tecniche militari
apprese in tanti anni di battaglie, sui svariati fronti di crisi, (e
forse anche dagli esperti istruttori dell'Armata Rossa): dall'uso di
una bomba a mano al metodo più spiccio per far deragliare un
convoglio.
Roasio lo ricorda come un uomo che
aveva sempre appresso una vecchia borsa di pelle sgualcita con dentro
panini, cose di uso normale e... candelotti di dinamite.
« scrive sempre Antonio Roasio
("Figlio della classe operaia", Vangelista editore )
.....cioè a visitare le città dell’Italia centro-settentrionale
per organizzare e far funzionare i gruppi gappisti. Studiava gli
uomini, le loro caratteristiche, insegnava i primi elementi sulla
costruzione di bombe a mano, bombe a scoppio ritardato, come far
deragliare un treno, ecc... Aveva sempre con se' una vecchia borsa
sgualcita, che certa non poteva passare per quella di un avvocato. Un
giorno gli chiesi che cosa custodisse tanto gelosamente: l’aprì,
c’erano dei panini, alcuni oggetti personali e dei candelotti di
dinamite. »
In Emilia diresse la lotta di
Resistenza, in particolare a Bologna che era già praticamente
liberata all'arrivo delle truppe alleate. Per la sua attività fu
decorato con la Bronze Star ancora da Harold Alexander, mentre
Giuseppe Dozza gli conferì il titolo di cittadino onorario della
città di Bologna. L'Unione Sovietica gli conferì il prestigioso
Ordine della Stella Rossa.
Prese parte all'assemblea costituiente
e in seguito fu parlamentare della camera e del Senato.
Morì in un incidente automobilistico a
Scandicci nel 1951 al ritorno dal congresso del partito. Con lui
morirono anche Leonardo Leonardi e Otello Frangioni.
Anton Ukmar era nato in frazione
Prosecco di Trieste da famiglia slovena nell'allora Austria Ungheria.
Giardiniere del comune di Trieste nel 1916 e ferroviere dal 1921,
aderisce al partito comunista. Nel 1927-1928 è trasferito a Genova
nelle ferrovie e entra a far parte della cellula clandestina del
Partito Comunista Italiano alla stazione di Genova Principe. Poi
viene arrestato e bastonato dagli squadristi, poco dopo viene
licenziato in tronco dalle ferrovie e trasferito a Prosecco col
foglio di via. A Trieste entra nell'organizzazione clandestina
slovena Borba e partecipa ad azioni di protesta contro la chiusura di
asili e scuole dove si insegna la lingua slovena. Arrestato
nuovamente, viene processato dal Tribunale Speciale per la sicurezza
dello Stato e poi prosciolto. Nel 1930 espatria a Parigi dove lavora
presso la sede del PCI in esilio, nel 1931 partecipa come delegato al
congresso del PCI a Colonia. Nel 1933 studia all'Università statale
di Mosca. Nel 1936 viene mandato in Spagna durante Guerra Civile
Spagnola e nel 1938 va a combattere in Catalogna. Nel 1939 è
internato in Francia, e poi parte per la missione in Etiopia.
Rientrato in Francia viene inviato a Genova nel 1944 come comandante
dei partigiani Garibaldini della zona ligure. Nell'agosto 1944
diventa comandante della VI Zona Operativa Ligure con sede a Carrega
Ligure in provincia di Alessandria. Vive tra Carrega Ligure e
Fontanigorda. È presente stabilmente in val Borbera dal luglio 1944
per trattare con Franco Anselmi la sua entrata nella 3a brigata
Garibaldi e per affidare nel gennaio 1945 a Erasmo Marrè la
riorganizzazione della Brigata Arzani. Si distingue in combattimenti
a Marsaglia in val Trebbia, alle Capannette di Pej tra Piemonte e
Emilia-Romagna, a Cartasegna di Carrega Ligure e a Carrega Ligure.
Nel maggio 1945 torna a Trieste e viene nominato dalle autorità
jugoslave comandante della polizia jugoslava della Zona B del
Territorio Libero di Trieste e poi nel 1955 diventa deputato al
parlamento della Repubblica Socialista di Slovenia. Nel 1970 si
ritira a vita privata a Capodistria dove muore nel 1978.
Domenico Rolla era nato ad Arcola (La
Spezia) il 19 gennaio 1908. Di professione meccanico, fece parte
dell'organizzazione comunista clandestina. Per la sua attività
antifascista nel 1931 dovette espatriare in Francia.
Nel 1936 Rolla partecipò in Spagna
alla Guerra civile in difesa della repubblica. Combatté a Pelausthan
e a Cenicientos con la Centuria "Gastone Sozzi" e fu poi,
come sergente del Battaglione Garibaldi, sul fronte di Madrid. Venne
ferito a Casa de Campo nell'aprile del 1937. Rimessosi in sesto,
combatté sul fronte dell'Ebro, col grado di tenente e lo pseudonimo
di Bruno. Finita la guerrà ritornò in Francia, dove venne internato
nei campi di Saint-Cyprien e di Gurs.
Rolla nel 1939 riusci a evadere, e fu
inviato dal Comintern sul fronte della guerra di Etiopia in appoggio
alla Resistenza locale. Qui si unì ad altri esponenti
dell'Internazionale Comunista, i cosiddetti "tre apostoli":
Rollo era Petrus, il livornese Ilio Barontini era Paulus e il
triestino Anton Ukmar era Johannes[1]. Il gruppo degli "apostoli"
fondò il foglio La Voce degli Abissini ed addestrò e organizzò i
ribelli etiopici.
Sconfitto, si rifugiò in Sudan e poi
nuovamente in Francia, dove fu internato nel campo di Vernet. Nel
momento in cui la Francia cadde sotto il controllo dei nazisti e si
ebbe l'ascesa al potere del governo Petain fu consegnato alla polizia
italiana, che lo destinò al confino. Immediatamente a seguito della
caduta del Fascismo e dell'armistizio prese parte alla Guerra di
liberazione come membro della Resistenza abruzzese, assumendo il nome
di battaglia di "Carlo".
Dopo la guerra continuò l'impegno
politico nel PCI, dirigendo la federazione di Viterbo. Muore a Roma
nel 1954.
Ilio Barontini |
Roma, dicembre 1947. Da sinistra: Vittorio Bardini, Ilio Barontini, Walter Audisio e Francesco Moranino. |
Allegato 1. Giovanni Pesce a
colloquio con Ilio Barontini
Come nasce una bomba
Trascorrono tre giorni durante i quali
lo stordimento seguito all'azione si attenua. Mi ritrovo pieno di
fiducia e con maggiore coscienza critica. Non avevo ancora acquistato
sufficiente esperienza per condurre una lotta in città dove si
rischia cosi tanto e dove si richiede organizzazione, segretezza e
tempestività; dove metodo, calma e decisione sono i tre fattori del
successo. Sento bussare. Al di là dell'uscio la voce di Dante Conti
mi risponde. Con lui è Ilio Barontini, il leggendario combattente di
Madrid, di Guadalajara, il comandante che alla testa del battaglione
Garibaldi colse la vittoria contro i legionari fascisti; uno dei
pochi che in Abissinia fra i partigiani etiopi lottò contro gli
invasori.
Barontini sorride e mi abbraccia.
"Rimarrà da te alcuni giorni," esclama Conti prima di
andarsene. Barontini mi martella di domande: da quanti mesi sono a
Torino, come mi sono organizzato, qual è il mio piano d'azione, come
l'ho coordinato con la lotta generale delle masse popolari, se ho
messo in piedi un minimo di apparato tecnico. Barontini mette a nudo
le mie apprensioni, le mie insufficienze, i miei dubbi, le mie
incertezze. Per due giorni sono rimasto ad ascoltarlo. Alla fine lo
sgomento per la povertà dei mezzi, degli uomini,
dell'organizzazione, la sorpresa, l'ira prendono il sopravvento e
urlo che non ce la farò mai a svolgere tutto il lavoro da solo,
senza uomini, senza neppure sapere confezionare una bomba. Barontini
sorride.
"Se le bombe," dice, "sono
il tuo problema, è presto risolto," Ma non si tratta soltanto
di bombe.
"Parliamone adesso," insisto.
E la miccia? Barontini prosegue: "ora
t'insegnerò qualche cosa di più. Prendi appunti, anche se è contro
le regole della clandestinità. Per costruire una miccia a
combustione lentissima, che non faccia fiamma e che bruci
silenziosamente: questa miccia (stoppino) non si trova in commercio."
Barontini continua: "Prendi un
filo comune da calza, preferibilmente bianco e di lino, perché
inodore e meno fumogeno. Stèmpera 8 grammi di bicromato di potassa
in cento grammi di acqua; lascia bollire dieci minuti il cotone, dopo
di che lo lasci asciugare al buio. Poi prendi, ben asciutti, 40 fili
di detto cotone, lunghi secondo la necessità e con un filo del
medesimo cotone avvolgi i 40 fili facendo così un cordoncino che
brucerà per mezzo centimetro al minuto. "
"Certo," commento, "sembra
veramente facile."
"È facile," prosegue
Barontini, "se hai un amico fabbro." Lo interrompo
impaziente. Barontini prende un foglio di carta e una matita e mentre
parla disegna sul foglio.
"Prendi un tubo qualsiasi, piccolo
o grande, di ferro, di ghisa, di bronzò, perfino di alluminio, lo
tagli a dieci, venti, quaranta centimetri; saldi ad una estremità un
coperchio dello stesso materiale del tubo e al centro del coperchio
pratichi un foro di un diametro di sei o sette centimetri."
Mentre Barontini parla, continua a
tracciare segni sulla carta e la bomba nasce sotto i miei occhi.
"La parte del tubo senza
coperchio," prosegue Barontini, "viene filettata per
permettere di avvitarvi un altro coperchio, pure filettato per un
paio di centimetri. Si ripone l'esplosivo nel tubo, si fa passare la
miccia con il detonatore nel foro del, primo coperchio facendo in
modo che il detonatore vada ad innescarsi nell'esplosivo. Alla fine
si avvita il secondo coperchio e la bomba è pronta."
"Sarà potente?" chiedo.
"Quanto vuoi che sia, a seconda del diametro, della lunghezza
del tubo e la qualità di esplosivo disponibile. Puoi preparare anche
una bomba di dieci chili, venti chili, capace di distruggere una
caserma.
"Non hai che da provare. Vai dal
tuo amico fabbro. Costruisci la bomba e poi la esperimenti su uno
degli obiettivi che vuoi buttare all'aria."
"Certo che lo faccio,"
rispondo. "...Se ne accorgeranno! Però non riuscirò a far
tutto da solo, non ci sono uomini che mi aiutino, l'organizzazione
non mi da una mano, i collegamenti non funzionano, non ci sono
tecnici, non ci sono armi."
Barontini mi lascia sfogare, sorride e
tace. Poi mi aggredisce: "Le armi, le armi! E le tue bombe? Non
sono forse armi potentissime per una guerra che si combatte nelle
strade, fra le case, in mezzo alla gente? Non hai tecnici? E perché
non lo diventi tu? Impara a confezionare bombe esplosive, poi
imparerai a fabbricarti quelle incendiarie!
"Non ti bastano le bombe? Scendi
in strada, di sera, con un martello, un bastone, un coltello, con
qualcosa che serva ad uccidere. Togli le armi ad un repubblichino, ad
un tedesco, ad un altro tedesco, ad un altro repubblichino: avrai
armi per te e per i compagni che in questi giorni affluiranno ai
GAP!"
Sono come sommerso, stordito dalla
sicurezza tranquilla di questo uomo intelligente e buono. Mi incute
rispetto, un grande rispetto, ma non voglio darlo a vedere.
"Il partito," tento, "il
partito non mi aiuta?..." •
"Sbagli," esclama Barontini,
"sbagli veramente di grosso. Sei tu il partito, siamo noi il
partito e stiamo appunto aiutandoci l'un l'altro per combattere la
lotta in cui sono impegnati tutti gli altri partiti dello
schieramento antifascista, in cui è impegnato tutto il popolo
italiano. È una battaglia che ha bisogno di tutti, le frazioni
isolate non solo sono inutili ma spesso dannose. Devi tenerlo
presente, ben presente."
Sono interdetto: Barontini mi ha dato
ragioni che sono certo di aver sempre saputo, senza essere mai
riuscito ad esprimerle a me stesso.
Anche queste mi sembrano cose semplici.
Dunque è vero: il partito non mi ha mai lasciato solo.
Barontini, uscito nel pomeriggio,
rientra la sera con un pacco: "ecco la tua prima bomba, te l'ho
preparata io. Non è stato difficile." So già come la userò.
Nella mia mente l'azione è chiarissima; particolare per particolare,
secondo per secondo.
Due giorni dopo m'incontro con Andrea e
Antonio. Passeggio con Andrea lungo il corso. Antonio entra nel
locale gremito di tedeschi e fascisti. Di fronte al caseggiato c'è
la ferrovia. Dopo una lunga attesa Antonio sopraggiunge: "ci
sono dentro trenta tedeschi," dice, "quasi tutti ufficiali
e molti fascisti." Ci avviciniamo. Tengo sotto il braccio il
pacco con la bomba. L'ho confezionato in modo che la miccia spunti
dall'involto. Sotto la finestra del locale Andrea si accende una
sigaretta e, chinandosi verso di me, come a riparare la fiamma dal
vento, avvicina la brace alla miccia. È buio. Seguo con gli occhi il
punto rosso che sfrega leggermente contro la miccia. Sento il cuore
battere con violenza. D'improvviso sprizza un leggero soffio di
fuoco: la miccia è accesa. Alzo il pacco e lo appoggio al davanzale
della finestra. Ci allontaniamo lentamente facendoci forza per non
correre. Siamo già lontani sulle biciclette quando ci percuote lo
schianto lacerante e terribile della mia prima bomba.
A casa, prima ancora che parli,
Barontini legge sul mio viso l'impresa; mi abbraccia. "Bravo
muchacho!" mi ripete, dopo otto anni...
da Giovanni Pesce, "Senza tregua –
la guerra dei GAP”
Funerali di Ilio Barontini. Archivio storico dell'Unità |
Funerali di Ilio Barontini. Archivio storico dell'Unità |
Funerali di Ilio Barontini. Archivio storico dell'Unità |
Allegato 2. Pietro Secchia commemora
Barontini
C'è un'atroce ironia nella morte del
nostro Ilio Barontini: quest'uomo che era un eroe di razza, audace
sino alla temerità, questo combattente popolare di una grande causa
di tutte le guerre giuste, che mille volte sfidò e sfiorò la morte,
che sembrava avere il dono della invulnerabilità, quest'uomo doveva
morire insieme ai suoi due compagni di fede, di Partito e di lavoro
per tragica ironia della sorte in un disgraziato incidente
automobilistico.
Non era certo questa la morte che
Barontini aveva sognato, quando nelle battaglie di Arganda, di
Madrid, di Guadalajara, conduceva arditamente i garibaldini italiani
all'attacco contro le orde di Franco e dei nazifascisti, o quando in
terra di Francia organizzava la resistenza contro l'invasore tedesco
e diventava uno dei più noti comandanti dei Francs Tireurs
Partisans, o quando passando di città in città in Italia, dopo l'8
settembre 1943, gettava le basi di quella mirabile organizzazione
partigiana che egli contribuì più di ogni altro a creare, a fare
agire e a condurre alla lotta e alla vittoria. Perché ad Ilio
Barontini va il grande merito non solo di aver comandato tutte le
forze partigiane dell'Emilia, ma egli è stato anche un organizzatore
delle brigate gappiste, dei Gruppi di Azione Patriottica di tutta
Italia, che furono le truppe di assalto partigiane, gli audaci fra
gli audaci. I Gap erano i partigiani senza uniforme che agivano nelle
città in aperto campo nemico, senza protezione, senza possibilità
di ritirata, braccati continuamente dalla polizia, dalle S.S.
fasciste.
Non era facile trovare dei gappisti;
numerosi erano i giovani che andavano in montagna ad arruolarsi nelle
file partigiane, ma meno numerosi erano i giovani disposti a
combattere in città, in campo nemico.
La cosa si spiegava facilmente. Ci si
sente più sicuri quando si combatte in una formazione militare in
massa, quando si ha una base di operazione, una base di rifornimento,
una o più vie di ritirata o almeno molte probabilità di averle,
quando si combatte disponendo di armi e munizioni, se non pari a
quelle del nemico, certamente in grado di opporre una valida azione
di difesa o di offesa.
Non così era per i gappisti i quali
non vestivano una divisa, non potevano portare un fucile o un mitra
in spalla, non vivevano in una zona che offriva certe possibilità di
salvaguardia date dal terreno e dalla popolazione stessa.
I gappisti vivevano in città, spesso
sotto falso nome in una camera ammobiliata, in una casa dove quasi
sempre non si conoscevano gli inquilini, senza armi pesanti, con
scarse possibilità di aiuto.
Eppure di quali audace, di quali
eroismi furono capaci i Gruppi di Azione Patriottica creati ed
educati da Barontini.
Furono i Gap ad attaccare per primi i
tedeschi ed i fascisti nella città, furono i Gap per primi a
condurre con l'azione la lotta contro l'attendismo, furono i Gap a
dare impulso e combattività alla guerra di liberazione.
Oh! Oggi è facile a certi signori
clericali, liberali e simili, vantare di essere stati partigiani. Oh!
Oggi sembra facile a certi signori poter dare a noi, dare ai
comunisti, dare ai soldati ed ai compagni di Barontini, delle lezioni
di patriottismo. Ma è nei giorni duri, nei tempi difficili, che si
provano i veri patrioti.
Allora certi signori non approvavano le
audaci azioni dei soldati di Ilio Barontini, non approvavano che si
attaccassero i tedeschi, nelle città, nelle loro truppe in
movimento, i loro comandi, i loro covi.
Allora non approvavano né i sabotaggi,
né i colpi di mano, né le azioni audaci che colpivano il nemico di
sorpresa alle spalle in casa sua, non approvavano la preparazione
attiva e pratica dell'insurrezione nazionale.
Tutto questo disturbava certi signori,
li disturbava nei loro affari, nella loro vita familiare, nei loro
studi, nei loro intrighi, nei loro calcoli.
Ed il patriottismo di quei signori in
quei giorni era molto tiepido. Essi dicevano: "Ma perché volete
attaccare fascisti e tedeschi? lasciate stare, lasciate fare.
Aspettiamo che vengano tempi migliori! Con questi vostri attacchi
provocherete rappresaglie crudeli". Sì, sapevamo, Barontini
sapeva che i tedeschi erano crudeli, che le loro rappresaglie erano
terribili, ma egli sapeva anche che senza quelle lotte audaci e senza
quartiere non vi sarebbe stata guerra di Liberazione, non saremmo
stati degni degli Eroi del Risorgimento Italiano, non avremmo
conquistato il diritto di essere un popolo libero e indipendente.
Chi racconterà le epiche gesta, le
azioni audaci di cui furono capaci i Gruppi di Azione Patriottica, i
soldati di Ilio Barontini?
"Gli anni e i decenni passeranno -
come è scritto sulla lavagna di un grande eroe, di Dante Di Nanni,
uno dei migliori gappisti di Barontini -, gli anni e i decenni
passeranno, i giorni duri e sublimi che noi viviamo oggi appariranno
lontani, ma generazioni intere di giovani figli d'Italia si
educheranno all'amore del loro Paese, all'amore della libertà, allo
spirito di devozione illuminata per la causa della redenzione umana."
Qualcuno vuole accusarci di usurpare il
nome di Garibaldi, di avere dato abusivamente il nome di Garibaldi
alle nostre formazioni partigiane, di aver adoperato il simbolo di
Garibaldi nel corso di lotte elettorali.
Ma chi più di noi può richiamarsi a
Garibaldi e tenere alta la sua bandiera?
Innanzitutto Ilio Barontini, come la
grande maggioranza dei partigiani garibaldini fu un forte lavoratore,
un uomo del popolo.
E Garibaldi fu genuino uomo del popolo.
Antonio Labriola disse un giorno:
"Giuseppe Garibaldi fu uomo di popolo, e di quella parte del
popolo che per abito di schiettezza, per sobrietà di vita e per
onestà di costumi è la più incorrotta; nei suoi popolari istinti
di amante della giustizia, di odiatore di privilegi, di difensore
degli oppressi, di persecutore di ogni tirannide, rimarrà in
perpetuo e come effige, il più nobile e persuasivo esempio di verace
democrazia".
In secondo luogo Ilio Barontini fu uomo
di azione, e combattè sempre come i nostri partigiani garibaldini
per una causa giusta. Perché ripeto è vero coraggio, è vero
eroismo solo quello che è messo al servizio di una causa giusta. E
Barontini tutta la sua vita lottò per una causa giusta.
Barontini fu disinteressato ed eroico
in ogni suo atto, in tutte le sue azioni perché l'idea della
giustizia era in lui profondamente radicata, perché il Socialismo
era la sua grande fede. Il suo forte amore per la patria scaturì da
questa sua profonda fede, da questa sua grande aspirazione alla
giustizia, alla libertà, al socialismo.
Ilio Barontini, come Otello Frangioni,
come Leonardi, come i nostri migliori garibaldini, come i nostri più
fedeli comunisti, non lottò solo per liberare l'Italia dall'invasore
straniero, ma il suo fervente amore di patria seppe dimostrarlo anche
nelle lotte per liberare il popolo italiano dai suoi nemici interni,
dai suoi oppressori.
Così pure Garibaldi fu il
rappresentante più duro, più popolare della lotta per
l'indipendenza nazionale, Garibaldi lottò, allo stesso tempo, per la
libertà e la giustizia sociale.
Garibaldi combattendo contro gli
Asburgo ed i Borboni non combatteva solo per fare unita e
indipendente l'Italia, ma combatteva per liberare il popolo dalla
schiavitù feudale, dall'oppressione tirannica, combatteva per
liberare il popolo da un esoso sfruttamento, dal bisogno e dalla
miseria. Tant'è che dopo il 1860, deluso per la politica reazionaria
che i governi d'Italia continuavano, deluso e rammaricato per l'esoso
sfruttamento cui era sottoposto il popolo italiano ed in modo
particolare i contadini dell'Italia Meridionale, Garibaldi dette le
dimissioni da deputato ed alla madre di Cairoli che lo pregava di
ritirare le dimissioni, Garibaldi scriveva:
"Mi vergogno di avere contato per
tanto tempo nel novero di un'assemblea di uomini destinata in
apparenza a fare il bene del Paese, ma in realtà condannata a
sancire l'ingiustizia, il privilegio e la prostituzione. Lunga è la
storia delle nefandezze perpetrate dai servi di una mascherata
tirannide, e longanime troppo la stupida pazienza di chi li tollera.
E voi donne di alti sensi e di intelligenza squisita, volgete per un
momento il vostro pensiero alle popolazioni liberate dai vostri
martiri e dai loro eroici compagni, chiedete ai vostri cari
superstiti delle benedizioni, con cui quelle infedeli popolazioni
salutavano ed accoglievano i loro liberatori. Ebbene esse maledicono
oggi coloro che li sottrassero al giogo di un dispotismo per
rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e
che li spinge a morire di fame".
"Ho la coscienza - continuava
Garibaldi - di non aver fatto male; nonostante non rifarei oggi la
via dell'Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate dai
popoli che mi ritengono complice della spregevole genia, che
disgraziatamente regge l'Italia e che seminò l'odio e lo squallore,
là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano,
sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente
iniziato".
Garibaldi pensò sempre che "la
libertà politica - sono sue parole - doveva essere il mezzo per
risolvere la giustizia sociale".
Per Ilio Barontini, come per la
maggioranza dei partigiani conquistare l'indipendenza dell'Italia non
significava solo cacciare il tedesco, ma significava spezzare le
redini al fascismo e cioè proprio a quei gruppi del grande capitale
finanziario che costituivano l'essenza del fascismo.
La lotta per l'indipendenza e la lotta
per la libertà erano per Barontini e per noi inscindibili. Non
avremmo potuto combattere contro lo straniero se non avessimo
combattuto nello stesso tempo per la libertà e per la democrazia.
Brani tratti da un discorso
pronunciato a Livorno, a due anni dalla morte di Ilio Barontini, da
Pietro Secchia vice segretario del PCI. Livorno 1952